Gaga is cool

Se si confermasse il trend attuale, tra 20 anni ci ritroveremo tutti a dire “che figa la musica di Lady Gaga” solo perché qualcuno la riscoprirà, la metterà in discoteca in una serata revival “2000” e quattro stronzi la balleranno con lo stesso piacere che io ci metto nello scatenarmi su “I just can’t get enough”.

Also sprach Matteo. Comunque già mi ci vedo a ballarla, non dovrò più avere vergogna di farlo.

Coincidentia oppositorum

“La comunicazione si sta mangiando il mondo, l’infinita varietà del vivere, in cambio offre forme differenziate di intrattenimento, illusioni socializzanti. Connettersi per accedere ad un contatto disincarnato in cui virtù e vizio si equivalgono. Non c’è educazione, non c’è apprendimento, non c’è crescita umana che possa essere disincarnata. Senza carne non c’è vita”.

Giovanni Lindo Ferretti, che lo scrive su Facebook

Quantovannodimodaglianni80

Come sempre una canzone commerciale (in questo caso, We are Young dei Fun) mi fa pensare ad altre cose ad essa collegate.

Questa è una del tipo: avanguardia e roba di massa. In particolare la cosiddetta “avanguardia” potrebbe essere quella della musica “indie”. Anche se mi fa un po’ ridere definirla di avanguardia.

La tendenza anni 80 è da qualche anno che si sente in giro. Credo che già 5 anni fa ci fossero gruppetti nella scena indipendente che avevano sonorità molto anni 80 (e anche gruppi più interessanti come gli Editors si rifacevano alla scena new wave di quegli anni).

Solo nell’ultimo anno e mezzo però si sente musica con influssi anni 80 che passa nelle radio commerciali.

Sembrerebbe proprio la dimostrazione che ciò che è “indie” diventa “mainstream” entro qualche anno. E questo è verissimo. A questo a parer mio si aggiunge il fatto che la musica “indie” è indie per finta. Nel senso che l’indie oggi è il settore ricerca e sviluppo delle case discografiche: mostra in anticipo qualcosa che poi, se fortunato, diventerà di massa. Questo appropriarsi dei codici indipendenti è un tratto tipico della musica di massa di questi ultimi anni.

(io li ascoltavo quando ancora non li conosceva nessuno)

Riflessioni su una canzone di merda

Il pop americano rivela sempre sorprese, anche quando non sono derivanti da una particolare qualità della canzone. In questo caso, ad esempio, ci starebbe una bella riflessione sulla mercificazione del corpo all’interno dei video, sul fatto che non si riesca a vendere una canzone senza doverci mettere la (quasi) nudità, sull’estetica posticcia del corpo perfetto che tanto fa invidia a quelli con la panza.

La cosa simpatica è che ora vale anche per il corpo maschile, non solo per quello femminile. Democratizzazione del trash? Lotta per le pari opportunità di ridursi a immagine finta? Giudicate voi. La canzone, ovviamente, fa schifo.

Big in Japan

Negli ultimi giorni sono andato in fissa con un classico degli Alphaville, Big in Japan.

Stavo paragonandolo alla cover fatta qualche anno fa dai Guano Apes, che hanno appena  fatto uscire un nuovo album. Ovviamente la cover è più rock. Però devo dire che il pezzo originale degli Alphaville, pop elettronico anni 80, ha un’anima rock più interessante ancora della cover. Dunque vi invito ad ascoltarvi l’originale. E poi l’inizio, anni 80 che vogliono imitare i suoni giapponesi con le tastierine elettroniche, a me fa impazzire.

Riflessioni sulla musica “commerciale”

I Rolling Stones e i Beatles si possono definire commerciali?

La domanda è meno semplice di quanto sembri. Il primo pensiero di chi li ha amati, e anche di chi conosca la loro musica, è di dire no. Un no secco. I dubbi però si insinuano un po’ più in profondità. Pensi alle masse adoranti, alle classifiche Billboard, a quello che i giornali si divertirebbero a chiamare “fenomeno di costume”. E associ a tutto questo, magari a sproposito, magari no, l’aggettivo “commerciale”.

Diventa questione di definizioni, di spaccare il capello in quattro per salvarli. Non li puoi paragonare a Lady Gaga, cazzo. Questa volontà di non accettare il paragone gaghesco ti spinge dunque a riflettere su che cosa fa diventare la musica “commerciale”.

Sgombriamo il campo da equivoci: commerciale non vuol dire popolare. La musica popolare è sempre esistita, quella commerciale è un fenomeno del Novecento. A un primo livello, “commerciale” implica il concetto di vendita. Ma questo non basta, anche i Beatles vendevano, e parecchio. Anche Giuseppe Verdi vendeva, e parecchio. Vallo a dire a Ricordi, l’editore, se non è diventato ricco grazie a lui.

Vendere bene non basta per essere commerciale. Bisogna vendere “male” – non nel senso di fatturato – per essere commerciale. Sei commerciale se non fai innovazione in musica. Se, insomma, riproponi un modello visto e rivisto – senza particolari aggiustamenti, se non quelli necessari a differenziarti dagli altri commerciali – se dai alle persone che ti ascoltano non uno shock ma un senso di dejà-vu. Questo adagiarsi della musica su un modello di vendita ben preciso, quello del follower di mercato, è all’origine della commercialità.

Gli Strauss erano, ante-litteram, un po’ commerciali. Mozart era come i Beatles, commerciale in superficie, innovatore nel profondo.

Se però il commerciale in musica ci ha dato qualcosa di positivo è stato il mettere da parte, almeno nella realtà se non nella vulgata, il concetto romantico dell’autore. Quello solitario che si sveglia di notte in preda all’ansia di scrivere e tira fuori l’Infinito di Leopardi in un getto solo. Innanzitutto perché a scrivere musica sono, solitamente, più membri della band. E a questi si affiancano vari personaggi, dal produttore all’agente al direttore marketing. Il concetto plurale d’autore – con tutti i suoi limiti derivanti dall’essere business – è propedeutico a una concezione aperta dell’opera, in cui non è solo il solitario romantico ad avere il diritto di arrogarsene il senso se non la proprietà, ma in cui il senso è fornito dalla relazione tra soggetti dialoganti.

 

The Decemberists e le mode indie

3 anni fa eravamo tutti post-punk con i The Fratellis. Due anni fa elettronici grazie ai Justice. Oggi siamo tutti un po’ folk (e basta guardare le barbe che spuntano in giro per capire quanto sia profondo il cambiamento). A volte mi chiedo quale schizofrenia debba possedere la mente di quella razza deviata chiamata indie.

Comunque loro sono bravi.

 

In morte di Amy Winehouse

Premetto che non ho mai ascoltato Amy Winehouse. Il suo genere è molto lontano dai miei gusti. Ne ho sempre apprezzato le capacità vocali e l’abilità di rendere moderno ciò che moderno non è. Non ho mai apprezzato i suoi cloni che hanno infestato la scena musicale, dall’Inghilterra a (ahinoi) l’Italia.

Ma questo post non è un necrologio, né vuole elogiare un’artista come tanti hanno fatto. La mia è una riflessione sul rock and roll, sui suoi stereotipi e i suoi miti.

La distanza tra mito e stereotipo è, secondo me, abbastanza labile, soprattutto nel rock and roll. Tutti sanno che il rock and roll è atteggiamento, oltre che musica – questo da quando io ho memoria, cioè oggettivamente poco. La forza del rock è stata unire una musica che di base è abbastanza semplice – una sezione ritmica e una melodica, formate da più o meno 4 persone – all’idea che ascoltare quella musica (e ancor di più farla) faccia entrare in una specie di casta a parte, alternativa al mondo “non rock”.

Questo capitava alle origini, quando il rock and roll era la musica della generazione nuova uscita dalla guerra. Allora, effettivamente, il rock and roll era alternativo alla musica e agli stili di vita “normali”.

Così non è più stato, secondo me, a partire dagli anni 70. Di per sé, ascoltare rock and roll non è più “figo”, “ribelle” e “giovane” di ascoltare qualsiasi altra musica. D’altra parte anche l’idea che ascoltare un certo genere di musica ti renda figo, ribelle e giovane è già abbastanza ridicola.

Fin qui la realtà. A questa si associa il mito, nelle forme romantiche di un culto sfrenato delle personalità individuali dei grandi del rock. Intorno a loro si è formata una Vulgata che ha molti tratti in comune con il messaggio messianico (un tantinello più “demoniaco” in alcuni casi, vedi Black Sabbath). I grandi del rock sono redentori, superuomini, esempi di un’umanità altra e superiore che non segue regole ma le crea. Ovviamente le crea solo per sè, perchè è nello sfrenato individualismo, più che in altre cose, che si trova la cifra del rock and roll.

Manco a dirlo, coloro che venerano i miti sono quelli che nella loro vita mai potrebbero sognarsi le cose che fa la superstar. In questo passaggio l’anima commerciale del rock and roll si esalta, nelle forme di un moderno messaggio di marketing – ti pongo davanti un modello irraggiungibile che ti ispira desiderio e a cui tu ti puoi avvicinare se compri il suo album.

Ma il marketing non spiega tutto e non è onnipotente. Il rock è anche sociale. Forse mai politico, ma sociale sì. Mai politico perchè nessuna star vuole cambiare il sistema in cui viviamo – se è una vera rockstar, lui del sistema se ne frega. Sociale sì, perchè diventa linguaggio di comprensione tra le persone, perchè unisce e diventa fonte di ispirazione per tanti.

Ed è nella sua socialità, nel ripetersi ossessivo e sempre più sfumato man mano che ci si allontana dalla fonte di gesti “ribelli”, che si crea lo stereotipo del rock and roll. Esso diventa la limousine piena di groupies, il Jack Daniel’s da bere in stanze di hotel distrutte, l’eroina che ti aiuta a scrivere le canzoni e che a volte ne diventa protagonista.

La povera Amy è vissuta in questo stereotipo. Non fraintendetemi: non dico che dentro di lei non ci fosse una persona disperatamente bisognosa di aiuto. Dico che lo stereotipo di Amy è cresciuto insieme a lei, a volte si è nutrito di lei e a volte lei l’ha nutrito, a volte è stato amplificato ancora di più dal marketing per accostarla a quegli altri stereotipi del rock che scimmiottano il mito del rock.

Amy non era una rockstar e non lo è mai stata. Si è travestita, o l’hanno travestita, o si è lasciata travestire da stereotipo della rockstar – era una ragazza malata e bisognosa. Anche nella sua morte da stereotipo – droghe e alcol in stanze solitarie – è stata accostata a chi come lei è morto a 27 anni, da Jimi a Kurt. Come era una morte stereotipata quella dei bohemien francesi nell’800, o quella dei poeti greci che dicevano che è benvoluto dagli dei chi muore giovane. Una morte che si fa letteratura, non vita reale, almeno per chi come noi la guarda alla televisione o nell’800 la vedeva rappresentata a teatro. Questa riduzione della morte a spettacolo e a stereotipo è un altro dei tanti nostri modi di illuderci e di contenere l’enorme baratro che ci si para davanti quando siamo soli.

 

 

 

Impressioni – Jeff Buckley, Hallelujah

Grace Album Cover

Colore: verde come erba.

Luogo in cui ascoltarla: un prato di sera

Con chi ascoltarla: da solo

Frase:

“It’s not a cry that you hear at night
it’s not somebody who’s seen the light
it’s a cold and it’s a broken hallelujah”

Sensazioni:

Credo di ricordare moltissime delle volte in cui ho ascoltato questa canzone. Forse è per me quella che più fa risaltare ciò che le sta intorno, il tempo in cui mi raggiunge.

La prima impressione che ti coglie è quella del respiro di Jeff, ancora prima dell’inizio della chitarra. è solo, e tu sei solo. Ci siete solo voi due.

E invece no, c’è anche la sua chitarra che si frappone tra voi. Mozza il respiro di Jeff e si fa strada nelle tue orecchie. E tu sei abituato a molte chitarre, anche a chitarre pesanti. Ma questa è un sussurro freddo, che entra nel naso come il respiro d’inverno.

Poi il ghiaccio si sgela, come capita in molte canzoni di Jeff. E allora inizia la sua voce.

Sei anche abituato a cantanti con belle voci. Ti abitui facilmente. Ma a questo tono, a questa forza trattenuta a stento eppure vivissima, non ti abitui mai. Come alle cose che dice.

Sei lì a pensare come si possa pronunciare una parola così difficile – Hallelujah –  senza scadere nel banale. Jeff te lo dice. Te lo canta, e ogni volta che lo pronuncia è diversa dalla precedente. Facci caso. L’interpretazione di quella parola non è mai per una volta ripetuta, ogni volta dice qualcosa di diverso.

Questo introduce al senso, alle mille maniere di intendere un Hallelujah e di sospirarlo.

E dunque forza, unisci divino e umano. Apriti al molteplice. Impara da Jeff come l’amore terreno – anche il sesso – meriti di essere celebrato, in un carillon vortiginoso che sale e scende fino a confondere radici e foglie – fino a farci restare muti, con appena il fiato di dire Hallelujah.

(i post di “Impressioni” vengono da un mio altro blog che potete trovare qui)

Rivoglio gli Arctic Monkeys di una volta

Che saranno pure diventati fighi nell’ultimo album Suck it and see, avranno pure la sapienza di Josh Homme inside, si saranno anche americanizzati. Però io preferivo gli Arctic Monkeys cazzoni, veloci, che fanno muovere il piedino di I bet you look good on the dance floor.