Premetto che non ho mai ascoltato Amy Winehouse. Il suo genere è molto lontano dai miei gusti. Ne ho sempre apprezzato le capacità vocali e l’abilità di rendere moderno ciò che moderno non è. Non ho mai apprezzato i suoi cloni che hanno infestato la scena musicale, dall’Inghilterra a (ahinoi) l’Italia.
Ma questo post non è un necrologio, né vuole elogiare un’artista come tanti hanno fatto. La mia è una riflessione sul rock and roll, sui suoi stereotipi e i suoi miti.
La distanza tra mito e stereotipo è, secondo me, abbastanza labile, soprattutto nel rock and roll. Tutti sanno che il rock and roll è atteggiamento, oltre che musica – questo da quando io ho memoria, cioè oggettivamente poco. La forza del rock è stata unire una musica che di base è abbastanza semplice – una sezione ritmica e una melodica, formate da più o meno 4 persone – all’idea che ascoltare quella musica (e ancor di più farla) faccia entrare in una specie di casta a parte, alternativa al mondo “non rock”.
Questo capitava alle origini, quando il rock and roll era la musica della generazione nuova uscita dalla guerra. Allora, effettivamente, il rock and roll era alternativo alla musica e agli stili di vita “normali”.
Così non è più stato, secondo me, a partire dagli anni 70. Di per sé, ascoltare rock and roll non è più “figo”, “ribelle” e “giovane” di ascoltare qualsiasi altra musica. D’altra parte anche l’idea che ascoltare un certo genere di musica ti renda figo, ribelle e giovane è già abbastanza ridicola.
Fin qui la realtà. A questa si associa il mito, nelle forme romantiche di un culto sfrenato delle personalità individuali dei grandi del rock. Intorno a loro si è formata una Vulgata che ha molti tratti in comune con il messaggio messianico (un tantinello più “demoniaco” in alcuni casi, vedi Black Sabbath). I grandi del rock sono redentori, superuomini, esempi di un’umanità altra e superiore che non segue regole ma le crea. Ovviamente le crea solo per sè, perchè è nello sfrenato individualismo, più che in altre cose, che si trova la cifra del rock and roll.
Manco a dirlo, coloro che venerano i miti sono quelli che nella loro vita mai potrebbero sognarsi le cose che fa la superstar. In questo passaggio l’anima commerciale del rock and roll si esalta, nelle forme di un moderno messaggio di marketing – ti pongo davanti un modello irraggiungibile che ti ispira desiderio e a cui tu ti puoi avvicinare se compri il suo album.
Ma il marketing non spiega tutto e non è onnipotente. Il rock è anche sociale. Forse mai politico, ma sociale sì. Mai politico perchè nessuna star vuole cambiare il sistema in cui viviamo – se è una vera rockstar, lui del sistema se ne frega. Sociale sì, perchè diventa linguaggio di comprensione tra le persone, perchè unisce e diventa fonte di ispirazione per tanti.
Ed è nella sua socialità, nel ripetersi ossessivo e sempre più sfumato man mano che ci si allontana dalla fonte di gesti “ribelli”, che si crea lo stereotipo del rock and roll. Esso diventa la limousine piena di groupies, il Jack Daniel’s da bere in stanze di hotel distrutte, l’eroina che ti aiuta a scrivere le canzoni e che a volte ne diventa protagonista.
La povera Amy è vissuta in questo stereotipo. Non fraintendetemi: non dico che dentro di lei non ci fosse una persona disperatamente bisognosa di aiuto. Dico che lo stereotipo di Amy è cresciuto insieme a lei, a volte si è nutrito di lei e a volte lei l’ha nutrito, a volte è stato amplificato ancora di più dal marketing per accostarla a quegli altri stereotipi del rock che scimmiottano il mito del rock.
Amy non era una rockstar e non lo è mai stata. Si è travestita, o l’hanno travestita, o si è lasciata travestire da stereotipo della rockstar – era una ragazza malata e bisognosa. Anche nella sua morte da stereotipo – droghe e alcol in stanze solitarie – è stata accostata a chi come lei è morto a 27 anni, da Jimi a Kurt. Come era una morte stereotipata quella dei bohemien francesi nell’800, o quella dei poeti greci che dicevano che è benvoluto dagli dei chi muore giovane. Una morte che si fa letteratura, non vita reale, almeno per chi come noi la guarda alla televisione o nell’800 la vedeva rappresentata a teatro. Questa riduzione della morte a spettacolo e a stereotipo è un altro dei tanti nostri modi di illuderci e di contenere l’enorme baratro che ci si para davanti quando siamo soli.